Oggetti inconsueti, forme geometriche la cui severità è attenuata da un sottile senso ironico, introducono lo spettatore all’universo concettuale di Jacopo Candotti: la sensibilità scultorea che attraversa la sua ricerca è forse l’unico filo conduttore che permette di affiancare progetti molto diversi tra loro sotto un’unica identità. Nella produzione dell’artista infatti non è rintracciabile uno stile o un media privilegiato, il percorso che egli segue varia costantemente e il risultato non è mai quello che ci si potrebbe aspettare. Dai primi disegni, in cui oggetti di un immaginario fantastico sono legati insieme da sottili linee che corrono sulle pareti, passando attraverso lavori in cui a dominare è un’impronta più critica fino a installazioni in cui l’artista riflette su questioni legate alla propria pratica artistica, riflessioni concettuali e soluzioni formali diverse si intrecciano senza soluzione di continuità. Le singole problematiche si traducono in interventi in cui è l’oggetto a rappresentare l’elemento privilegiato attraverso cui cercare, ad esempio, un diverso rapporto con il pubblico dell’arte, come avviene in ST05 (2007), una piattaforma di legno e poliuretano “in movimento” che invita lo spettatore a fruire fisicamente dello spazio e che allo stesso tempo ne mette in difficoltà l’equilibrio fisico. Un modo ironico per far entrare il pubblico in contatto vero con il lavoro e una messa a dura prova della stabilità con cui ognuno di noi si rapporta alla realtà. L’ironia, come “aiuto durante la ricerca”, gioca un ruolo rilevante arricchendo il lavoro, lasciando spazio a diverse possibilità di lettura e aiutando l’artista nel trattare tematiche importanti. In Untitled (2006), un tapis roulant il cui tappeto altro non è che la bandiera italiana, il fruitore si ritrova a correre su questo grosso oggetto senza una meta né un obiettivo, in un agire senza senso, che l’artista stesso esplicitamente riconduce a una condizione generale del nostro paese, in cui una sorta di provincialismo cronico lo destina a correre costantemente verso non si sa cosa, dove e perché. Si tratta quasi sempre di lavori in cui la componente polemica è accompagnata da un assetto formale rigoroso, quelle forme pulite e ordinate a cui l’artista non rinuncia neanche di fronte al caos di schizzi e disegni che occupano il suo studio durante la progettazione di un nuovo lavoro. Una struttura pesante fissata al pavimento cattura l’intuizione, ne blocca la verifica empirica imponendole di rimanere in una dimensione di mezzo, quella della progettazione: è Untitled (2007), un lavoro in acciao inox specchiante che intrappola una serie di disegni, pensieri e progetti dell’artista. La perfezione della struttura e i materiali usati contrastano l’incompiutezza e la fragilità dei fogli bloccati dentro. Una riflessione, ma soprattutto un’incapacità dell’artista di arrivare a una conclusione adeguata, di trasporre in modo opportuno il proprio pensiero nel risultato finale, una fragilità che paradossalmente si traduce proprio nella perfezione di questa struttura. La stessa incapacità che Jacopo Candotti sperimenta ancora una volta quando si misura con il mezzo pittorico, come in Pittura #1 (2007), in cui la riflessione sulla pittura si trasforma nell’incapacità di dipingere e si risolve in una struttura di tela e legno, che, come un prolungamento della parete, regge in piedi questo dipinto, che “altrimenti da solo non si reggerebbe”, come afferma l’artista stesso. Assegnare un adeguato contenitore a ogni contenuto implica una rigorosa e costante ricerca formale come quella compiuta dall’artista che spesso si traduce in elementi che lasciano poco alla casualità, frammenti ben ponderati di quell’universo complesso filtrato dalla sensibilità dell’artista. La qualità dell’oggetto, benché visibile e chiara, tuttavia, rimane subordinata alla ricerca introspettiva dell’artista.
Jacopo Candotti trasforma la sensazione di precarietà e incompiutezza in oggetti che impongono la loro presenza nello spazio — Real Material In Real Space — materiali che delineano e definiscono i confini dell’esperienza dell’artista e si mostrano nella loro limitatezza come l’unico appiglio fisico che lega la riflessione concettuale dell’artista al reale.